Licenziamento per ritorsione: una sentenza fa chiarezza

Con sentenza depositata il 23 gennaio 2017 (n.10.232/2016), il Giudice del Lavoro di Roma si è pronunciato in modo chiaro ed esaustivo su uno dei temi più dibattuti del diritto del lavoro: il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la sua sussistenza e come esso possa essere messo in relazione con la rivendicazione da parte del lavoratore che si sia trattato di un licenziamento per ritorsione.

Questi i fatti di causa:

Con ricorso depositato nel febbraio 2015, il ricorrente ha adìto il Tribunale di Roma, chiedendo di dichiarare la nullità e/o illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo al ricorrente in data 01 ottobre 2014 e, per l’effetto, disporre la ricostituzione del rapporto di lavoro; condannare la società convenuta al pagamento della retribuzione globale di fatto maturata dalla data del licenziamento; in via subordinata, (previa modifica del rito) applicare le conseguenze dell’invalidità del recesso previste dalla L. n. 604/66, L. n. 108/90 e L. n. 92/12 ovvero dell’art. 18 L. n. 300/70.

Si è costituita, con memoria, la società convenuta, contestando quanto ex adverso dedotto, chiedendo il rigetto del ricorso. Istruita con documenti e prova testimoniale, la causa è stata discussa e decisa  all’udienza del 25 novembre 2016.

Motivi della decisione

Il Giudice ha stabilito che nel merito il ricorso proposto è infondato, e deve essere rigettato sulla base delle seguenti motivazioni.

Come noto, il giustificato motivo oggettivo di licenziamento è quello motivato da “ragioni inerenti alla attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, ai sensi dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966 n. 604.

Quindi, costituiscono presupposti della legittimità del recesso:

  • l’effettività ed obiettività delle ragioni aziendali addotte a giustificazione del recesso, le quali devono essere determinate da situazioni oggettive, e non da scelte liberamente compiute;
  • la necessità che dette ragioni siano funzionali a fronteggiare situazioni sfavorevoli sopravvenute e non contingenti, di medio o lungo periodo, che influiscano sulla normale attività produttiva ed impongano la riduzione dei costi, così da doversene escludere il carattere pretestuoso od occasionale oppure una finalità meramente strumentale all’incremento del profitto.

Ove il licenziamento sia stato motivato richiamando l’esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli, ovvero a spese notevoli di carattere straordinario, ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addotta dall’imprenditore.

Nel caso esaminato, considerato che costituisce onere del datore di lavoro allegare e provare la reale sussistenza delle ragioni poste a fondamento del licenziamento, cioè la loro veridicità ed effettività, ritiene il Giudice che il datore di lavoro abbia adempiuto sufficientemente all’onere probatorio sul medesimo ricadente.

Ed infatti, il datore di lavoro ha provato in modo documentale che il recesso impugnato è stato intimato in data 1/10/14 sulla base della motivazione secondo la quale la società, a seguito del recesso a decorrere dall’1/03/14 del rapporto di consulenza in essere dal 2010 con un importante cliente, ha dovuto rivedere la propria pianificazione strategica, valutando e rendendo operative iniziative volte a preservare l’adeguatezza patrimoniale della società e, in tale contesto, anche alla luce di quanto previsto nel “resoconto del processo interno di valutazione dell’adeguatezza patrimoniale attuale e prospettiva al 31/12/13” (ICAAP), ratificato dal CdA a maggio 2014, la società  ha ritenuto necessario procedere ad una riorganizzazione della struttura aziendale, in un’ottica di contrazione ed efficientamento dei costi fissi, con ricorso all’outsourcing anche per funzioni ed uffici diversi da quelli per i quali l’esternalizzazione di servizi ed attività risulta attualmente utilizzata.

La società, quindi, nell’ambito di tale riorganizzazione finalizzata alla contrazione dei costi fissi, ha deciso di intervenire nell’area sistemi informativi, ricorrendo al meno oneroso contratto di outsourcing con un’azienda esterna che forniva il medesimo servizio di competenza dell’area diretta dal ricorrente. Più esattamente, la società ha comunicato che l’attività dei sistemi informativi sarebbe stata affidata ad una società di Milano, che avrebbe gestito l’area sistemi informativi per un costo complessivo annuo pari ad euro diecimila lordi, inferiore al costo aziendale della posizione lavorativa del ricorrente, ammontante ad oltre sessantamila euro lordi. La società, nella lettera di recesso, ha anche dichiarato l’impossibilità di ricollocazione del ricorrente nell’ambito aziendale.

La resistente ha inoltre provato che nel mese di settembre 2014 era stata licenziata anche un’altra dipendente, addetta all’ufficio segreteria e affari generali, per giustificato motivo oggettivo basato sostanzialmente sui medesimi presupposti fondanti il recesso del ricorrente.

 E’ anche stato provato in via documentale che l’organico della società è passato da nove dipendenti al settembre 2014 a due dipendenti al settembre 2016, e che nei mesi precedenti il recesso de quo la società aveva risolto consensualmente il rapporto di lavoro con altri tre dipendenti.

Quindi, se le ragioni del riassetto organizzativo finalizzato ad una più economica gestione dell’azienda debbono ritenersi oggettive e documentalmente provate, anche il licenziamento del ricorrente deve ritenersi integrare la fattispecie della soppressione della posizione lavorativa cui era addetto – con esternalizzazione dell’attività e ridistribuzione delle residue mansioni finalizzate ad una più economica gestione dell’impresa – e si colloca nell’ambito delle misure atte al risanamento dell’azienda, che è stata successivamente posta in liquidazione.

Ciò che emerge, quindi, dalle allegazioni delle parti e dall’istruttoria documentale ed orale svolta, induce a ritenere che il recesso sia conforme ai principi affermati dalla giurisprudenza della Cassazione in materia (sentenza n. 6.501/ 2016), secondo la quale: “Il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, nel cui ambito rientra anche l’ipotesi di riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione dell’impresa, è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà d’iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., mentre al giudice spetta il controlla della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore.

 Ne consegue che non è sindacabile, nei suoi profili di congruità ed opportunità, la scelta imprenditoriale, che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o dei reparti o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato (ex plurimis Cass. 12242/2015, 25874/2014, 24235/2010).

 Questa Corte ha, inoltre, affermato che è posto a carico del datore di lavoro l’onere di dedurre e di dimostrare l’effettiva sussistenza del motivo addotto e, quindi, nell’ipotesi di licenziamento riconducibile ad un riassetto organizzativo dell’Impresa, delle ragioni che giustificano l’operazione di riassetto, oltre che del relativo processo e del nesso di causalità con il licenziamento. L’operazione di riassetto costituisce, infatti, la conclusione del processo organizzativo, ma non la ragione dello stesso, che, per imporsi sull’esigenza di stabilità, dev’essere seria, oggettivo e non convenientemente eludibile (Cass. n. 12242/2015, 7474/2012, 15157/2011).

In proposito, è stato precisato che il riassetto organizzativo dell’azienda può essere attuato anche al fine di una più economica gestione dell’impresa, finalizzata a far fonte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva (Cass. n. 2874 del 2012), purché di tali presupposti si dia adeguatamente conto in giudizio”.

Nel caso in esame, la parte ricorrente ha dedotto di aver svolto non soltanto mansioni di responsabile dei sistemi informativi (in riferimento alla quale è stato licenziato), ma anche mansioni di consulente e promotore finanziario, e che tali mansioni debbono considerarsi del tutto fungibili con quelle svolte da altri dipendenti addetti alla direzione finanza ed alla direzione commerciale indicati in ricorso.

 Tuttavia, dalle dichiarazioni dei testi escussi è emerso che il ricorrente, ingegnere informatico, fosse il responsabile dei sistemi informativi della società e che svolgesse effettivamente solo tale attività, mentre  non è emersa la prova che il ricorrente abbia concretamente svolto anche l’attività di promotore finanziario successivamente all’iscrizione nell’albo dei promotori finanziari.

Sulla base di tali sintetiche motivazioni, non può ritenersi che la scelta di licenziare il ricorrente sia affetta da violazione dei criteri di buona fede e correttezza, atteso che l’utilizzo di tali criteri di scelta può soccorrere solo nel caso di comparazione tra posizione lavorative omogenee concretamente, e non astrattamente fungibili. Le considerazioni sopra svolte hanno indotto il Giudice a ritenere legittimo il recesso per giustificato motivo oggettivo impugnato.

Sulla conseguente insussistenza del carattere ritorsivo del recesso

Accertata la legittimità e la veridicità delle ragioni poste a fondamento del recesso,  il Tribunale di Roma ha dedotto che NON può ritenersi provato che la ritorsione o la rappresaglia abbiano costituito l’unico motivo illecito posto a fondamento del recesso. A tal proposito, il Tribunale adito ha evidenziato che l’onere della prova del carattere ritorsivo del provvedimento datoriale grava esclusivamente sul lavoratore.

Esso deve essere assolto con la dimostrazione di elementi specifici, tali da far ritenere con sufficiente certezza l’intento di rappresaglia, che deve avere avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di un provvedimento illegittimo (cfr. Cass. n. 10047/04 – n. 7188/01 – n. 18283/2010).

Recentemente la Corte di Cassazione, con sentenza n. 24.648/2015, ha nuovamente precisato che: “Il divieto di licenziamento discriminatorio, sancito dall’art. 4 della legge n. 604 del 1966, dall’art. 15 st. lav. e dall’art. 3 della legge n. 108 del 1990, è suscettibile  (…) di interpretazione estensiva, sicché l’area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, ossia dell’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essendo necessario, in tali casi, dimostrare, anche per presunzioni, che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall’intento ritorsivo”.

Ed ancora, la Suprema Corte ha osservato che: “In sostanza non è sufficiente che il licenziamento sia (anche palesemente) ingiustificato per aversi un licenziamento ritorsivo, essendo piuttosto necessario che il motivo pretesamente illecito (cioè contrario ai casi espressamente previsti dalla legge, pur suscettibili di interpretazione estensiva, all’ordine pubblico e al buon costume) sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche presuntiva” (Cass. n. 17087/11; Cass. n. 6282/11; Cass. n. 16155/09).”

Nella fattispecie, a fronte dell’allegazione dell’ex dipendente, fondata su un ragionamento probatorio di natura esclusivamente presuntiva, non può ritenersi provato un elemento di ritorsione che abbia in via esclusiva determinato il recesso datoriale, atteso che il recesso è risultato comunque giustificato dalle ragioni che sono indicate nella comunicazione scritta, e che sono risultate sufficientemente provate all’esito dell’istruttoria.

Infatti, a fronte delle allegazioni relative al fatto che il recesso sia conseguenza dell’aver il ricorrente evidenziato ai responsabili della società convenuta le anomalie legate al portafoglio di riferimento affidato in gestione dal datore di lavoro ad una società terza,  per aver il ricorrente consegnato alla CONSOB in sede ispettiva della corrispondenza intercorsa con i vertici del suo datore di lavoro e per aver evidenziato ai responsabili della società resistente sia che la società terza era stata già sanzionata per carenze organizzative e di vigilanza, sia la criticità di alcuni investimenti, deve ritenersi provato che comunque il recesso risulta essere stato giustificato dalle ragioni produttive, tecniche ed organizzative indicate nell’atto di recesso.

Del pari, è stato provato in via documentale che il fatto che il ricorrente abbia consegnato agli ispettori della CONSOB la corrispondenza dell’amministratore, del direttore generale e del direttore dell’area finanza della società sia avvenuto non su sua spontanea iniziativa, ma in virtù di un suo obbligo di adempiere previsto ex lege alla richiesta di acquisizione documentale formulata dai medesimi ispettori.

 Non può neanche ritenersi provato che quanto accertato dall’organo di vigilanza sia derivato da denunce o esposti presentati dal ricorrente alla CONSOB, o da dichiarazioni da questi rese in sede ispettiva, di tal chè ne sia conseguita la decisione illecita di recedere dal rapporto di lavoro del ricorrente.

Il motivo ritorsivo illecito non può quindi ritenersi unico motivo determinante del recesso.

Avv. Salvatore Bruno Amato